Palermo, 10 aprile 2018 - Andrea D’Orazio «Serve un atto di coraggio per far ripartire il cantiere Italia, in stallo da troppi anni fra opere incompiute, viabilità indegna di un Paese civile e manutenzioni assenti. Noi cerchiamo di resistere, ma le imprese sono paralizzate, vicine al collasso». È l’ennesimo allarme lanciato dal settore delle costruzioni al mondo della politica, ma stavolta suona più forte, con la speranza di rompere il muro che ostacola la nascita del governo e scuotere i veti incrociati dei partiti. Il grido di dolore arriva da Gabriele Buia, numero uno dell’Ance, l’Associazione nazionale dei costruttori edili, ed è accompagnato da un appello rivolto alla nuova legislatura, «a far presto, a trovare una soluzione per un Esecutivo stabile e duraturo, altrimenti la crisi si aggrava». Presidente, in Italia quanto ritardo sconta il vostro comparto rispetto agli altri Stati Ue? «Ricordo solo un dato: nel giro di 10 anni, cioè dall’inizio della recessione economica, abbiamo perso almeno 60 miliardi di euro per mancati investimenti infrastrutturali, mentre la Spagna, che aveva una situazione economica peggiore di quella italiana, ha subito deciso di puntare sugli appalti pubblici e oggi si ritrova con un Pil superiore al nostro. Per non parlare dei posti di lavoro andati in
Palermo, 10 aprile 2018 – Andrea D’Orazio «Serve un atto di coraggio per far ripartire il cantiere Italia, in stallo da troppi anni fra opere incompiute, viabilità indegna di un Paese civile e manutenzioni assenti. Noi cerchiamo di resistere, ma le imprese sono paralizzate, vicine al collasso». È l’ennesimo allarme lanciato dal settore delle costruzioni al mondo della politica, ma stavolta suona più forte, con la speranza di rompere il muro che ostacola la nascita del governo e scuotere i veti incrociati dei partiti. Il grido di dolore arriva da Gabriele Buia, numero uno dell’Ance, l’Associazione nazionale dei costruttori edili, ed è accompagnato da un appello rivolto alla nuova legislatura, «a far presto, a trovare una soluzione per un Esecutivo stabile e duraturo, altrimenti la crisi si aggrava».
Presidente, in Italia quanto ritardo sconta il vostro comparto rispetto agli altri Stati Ue?
«Ricordo solo un dato: nel giro di 10 anni, cioè dall’inizio della recessione economica, abbiamo perso almeno 60 miliardi di euro per mancati investimenti infrastrutturali, mentre la Spagna, che aveva una situazione economica peggiore di quella italiana, ha subito deciso di puntare sugli appalti pubblici e oggi si ritrova con un Pil superiore al nostro. Per non parlare dei posti di lavoro andati in fumo: dal 2007 ne abbiamo contati circa 600mila, con oltre 100mila aziende che sono state costrette a chiudere i battenti. E il trend non accenna a migliorare, anzi. Nel 2017 gli appalti nei comuni sono calati di un ulteriore 7% e nei primi mesi di quest’anno l’emorragia è andata avanti senza soluzione di continuità».
Il Paese, però, paga il prezzo di un debito pubblico eccessivo e ha meno flessibilità di spesa. Non è questa la ragione dello stallo?
«È vero, gli Stati Ue che non hanno problemi di debito hanno potuto investire di più in infrastrutture, ma la paralisi italiana dipende anche da altri fattori. Primo fra tutti, il deficit nell’utilizzo dei fondi di sviluppo europeo. Basti pensare che al momento siamo riusciti a spendere solo il 5% delle risorse disponibili dal 2014 al 2020, rischiando di sciupare tutto il resto. E poi abbiamo un Codice appalti
poco chiaro, che blocca l’operatività delle amministrazioni e le già poche potenzialità di spesa degli enti locali. La legge è di difficile interpretazione ed è ancora incompleta, in attesa di linee guida che non sono mai uscite. Con un testo così farraginoso, i dirigenti comunali e regionali non sono disponibili ad assumersi responsabilità. Bisogna subito rimetterci mano».
Qual è la situazione in Sicilia e nel resto del Sud?
«È critica, perché il Mezzogiorno, più delle altre macroaree del Pese, non è riuscito a gestire bene le risorse Ue. Nel territorio siciliano, in particolare, abbiamo registrato negli ultimi anni un drastico calo di appalti, imprese e occupazione. A preoccupare sono anche le ricadute che il gap infrastrutturale della Sicilia ha sui comparti trainanti dell’economia, in particolare sul turismo e sull’agricoltura. Come fanno i visitatori ad ammirare le bellezze dell’Isola? E le merci, come possono raggiungere il resto d’Italia e dell’Ue senza costi esorbitanti? In ogni pezzo della Penisola, l’edilizia pubblica è stata sempre volano dell’imprenditoria: il materiale che acquistiamo è al 95% made in Italy, prodotto da 32 settori industriali italiani su 36. Se viene a mancare il nostro supporto, si ferma quasi tutto e il Pil arretra».
A parte la riforma del Codice appalti, cose chiederete al nuovo governo, se e quando nascerà?
«Di spendere immediatamente le risorse già stanziate con l’ultima legge di Bilancio, emanare un decreto legge per consentire alle amministrazioni di far partire i lavori e alleggerire, di molto, il fardello della burocrazia. A tal proposito, ricordo un dato emblematico: il contratto di programma 2016- 2020 firmato con l’Anas ha impiegato due anni solo per essere sottoscritto dalla Corte dei Conti. Con questi tempi come facciamo a risollevare il Paese?»
Ma allentando la burocrazia non c’è il rischio di far aumentare l’illegalità?
«È vero l’esatto contrario: la storia ci insegna che la corruzione e le infiltrazioni malavitose si annidano lì dove proliferano i cavilli legislativi. Se continuiamo a legiferare, ad accatastare norme su norme, troveremo sempre persone disposte a far di tutto pur di bypassare le regole. Lo sviluppo passa anche attraverso la semplificazione».